Tennemi Amor Anni Ventuno Ardendo Petrarca: What You Need to Know About the Poem that Changed the Hi
- psychemolprop1974
- Aug 17, 2023
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Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) Francesco PetrarcaXIV secoloCC BY-SA 3.0GFDL//it.wikisource.org/w/index.php?title=Canzoniere_(Rerum_vulgarium_fragmenta)/Tenemmi_Amor_anni_ventuno_ardendo&oldid=-20120409182019//it.wikisource.org/w/index.php?title=Canzoniere_(Rerum_vulgarium_fragmenta)/Tenemmi_Amor_anni_ventuno_ardendo&oldid=-20120409182019
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Tennemi Amor Anni Ventuno Ardendo Petrarca
"Mox ut me parentum cura destituit" (Posteritati, 17): sembra di avvertire nell'espressione non il dolore d'un orfano, ma l'amarezza d'un abbandono morale; si hanno infatti indizî per credere che frattanto Petracco fosse passato a nuove nozze, e certo l'agiatezza raggiunta dal padre scomparve nella successione; sicché i due fratelli dovettero pensare a guadagnarsi la vita. Fu allora che Giacomo Colonna - il quale poetava alla peggio anche lui! - chiamò a sé Francesco "vulgari delectatus stilo, in quo tunc iuveniliter multus eram". Nel piccolo seguito del prelato, che si disponeva a raggiungere la nuova sede episcopale di Lombez in Guascogna (1330), il P. trovò il romano Lello di Pietro di Stefano Tosetti, uomo d'armi ma "eloquente", e Luigi Santo di Beeringen, eccellente musico fiammingo; e questi due ebbe sempre di poi tra i più intimi amici, chiamando l'uno Lelio, in ricordo dell'amico di Scipione, e l'altro Socrate, per l'arguta serenità dell'indole. Ma frattanto, cioè tra il ritorno da Bologna e l'andata in Guascogna, era accaduto un importante evento. "L'anno del Signore 1327 il giorno VI d'aprile nella chiesa di Santa Chiara d'Avignone, su l'ora prima" gli apparve Laura. Con la precisione d'un atto notarile annoterà, questa data nella guardia d'un codice di Virgilio, oggi all'Ambrosiana, quando gli toccherà di fermarvi il ricordo della morte della celebrata amica, avvenuta nel giorno, nel mese e nell'ora stessa del 1348. Possiamo immaginare che una copiosa fioritura di canti sarà sbocciata al sole di quell'amoroso aprile e nei primi anni di poi; ma le Rime accolte nel canzoniere non sono quelle d'allora, salvo forse pochissime: si può dire che il P. non riconobbe degna d'essere conservata la sua produzione artistica d'innanzi al 1330, cioè al suo uscire dall'adolescenza, che durava secondo Cicerone sino ai ventott'anni. Tornato da Lombez, Giacomo gli ottenne di essere accolto nella "corte" del fratello cardinale Giovanni, la cui importanza nella curia avignonese, per gli affari d'Italia e in particolare di Roma, era grandissima. Naturalmente nel disbrigo dei maneggi relativi vi fu adoperato anche il P., che all'elezione di Benedetto XII (1334) fu incaricato di esporre poeticamente i voti e i bisogni di Roma (Ep. metr., I, 2 e 5; II, 5) e nell'occasione della crociata bandita il 1332 aiutò con l'eloquenza della canzone O aspettata in ciel l'opera animatrice di Giacomo Colonna. Nel 1333 il cardinale gli permise di fare un lungo viaggio, col patto che lo tenesse informato di quanto vedeva: a questo comando dobbiamo alcune bellissime lettere (Familiari, I, 3, 4) di "impressioni di viaggio", animate da uno spirito realistico e osservatore, che è nuovo nelle letterature medievali. Tre anni di poi ottenne d'essere mandato a Roma e nei primi del '37 è a Capranica, ospite degli Anguillara imparentati coi Colonna; vi s'indugia, trattenuto dalle malsicure condizioni della campagna romana, che rappresenta con la solita vivacità di visione paesistica (Fam., II, 12). Quando alfine entra in Roma, le rovine stesse gli parlano dell'antica grandezza. Aveva creduto il cardinale che quella vista l'avrebbe deluso; ma la commossa fantasia dello studioso ne fu anzi eccitata, anticipando anche in ciò i tempi, quando le rovine ecciteranno la sensibilità romantica. Poi fu forse preso dall'irrequietezza, e può darsi che nel ritorno visitasse le coste della Spagna, della Mauritania e dell'Inghilterra "ad extrema terrarum" (Ep. metr., I, 7; Fam., III, 9). Molti critici veramente dubitano di questo viaggio; ma certo la sua curiosità di studioso lo volse anche alla geografia. Fece infatti un'inchiesta (Fam., III, 1) per identificare la leggendaria ultima Tule; a re Roberto diede notizie per una progettata carta d'Italia; per un amico che si recava in Terrasanta, stese un breve Itinerarium Syriacum, materiato, nella prima parte, di "cose viste" e nella seconda di cose studiosamente apprese. Nell'agosto del 1337 lo troviamo tornato in Avignone e sullo scorcio dell'anno ritirato nella solitudine di Valchiusa, presso la famosa fonte del Sorga, a iniziare quello che un po' impropriamente fu detto il "decennio valchiusano".
Secretum. - Forse mentre Gherardo spariva nel silenzio del chiostro, Francesco dava opera, anche lui, alla propria riedificazione spirituale, mettendosi a scrivere un libro di confessioni, che accogliesse il segreto contrasto dei suoi sentimenti: De secreto conflictu curarum suarum (il titolo una volta in uso di De contemptu mundi è così arbitrario come inesatto). Un tal libro c'era da mille anni: le Confessioni di S. Agostino. Questo, a volte così drammatico nella rappresentazione dei moti più intimi dell'anima, dovette conquistarlo soprattutto per il suo valore artistico; certo fu la porta onde il P. entrò "non come transfuga, ma come esploratore" nel campo delle scritture religiose. Ora, quando volle rivelare sé a sé medesimo, gli venne naturale di evocare per proprio confessore il grande confesso, esperto dei suoi stessi travagli. La finzione proemiale del Secretum rinnova quella famosissima del De consolatione philosophiae di Boezio. Ma a lui "attonito e spesso meditabondo sulla mala via ond'era entrato e come uscirne", non appare già la filosofia, bensì "una donna più bella assai che il sole": la Verità, che si conduce appresso il problemi teologali. L'interesse ne è - come in ogni confessione - umano, e la materia essenzialmente psicologica. Il Franciscus di questo dialogo è il P. quale soleva apparire al mondo; Agostino lo spoglia del paludamento rettorico e lo rivela nella sua umana sincerità. Per esempio, all'accidia, che la teologia condannava bensì come peccato capitale, ma che già i cuori avvertivano piuttosto come una malattia dello spirito, il P., che ne ebbe avvelenata l'intima vita e intrisa di lagrime la poesia, dedica qui pagine, che sono delle più commosse e commoventi che abbia scritto. Agostino stesso non lo rimprovera; lo conforta, piuttosto. All'amore (non alla lussuria di cui è detto prima) e alla gloria, le due nobili catene - adamantine, ma pur catene - che lo tengono avvinto alla mondanità, è dedicato il terzo dialogo. Per il primo punto sorgeva dinanzi all'arte del P. una difficoltà: di non profanare la donna "suis celebrata carminibus". Per ciò il rimprovero del confessore cadrà sulla immoderatezza, sul contenuto di quel sentimento, insomma sopra la psicologia di Francesco, non sopra i pregi della donna. Ma un'altra difficoltà deve superare ora Agostino. Dianzi aveva trattato di peccati, che erano per sé aborriti da Francesco, e il suo compito era solo di convincerlo d'esserne macchiato. Qui invece si tratta di persuaderlo che questi sentimenti, che pur formavano la più nobile trama della sua esistenza spirituale, erano in sé peccaminosi. Impresa tanto difficile che perfino il sapiente vescovo d'Ippona non vi è riuscito. Tutti i remedia amoris che Agostino gli viene porgendo, e i remedia gloriae, presuppongono infatti un mutamento d'animo, che in Francesco non è avvenuto, né avverrà mai: e perciò sono inefficaci. "Quo pede claudices, agnosco" conclude il confessore. Il dissidio tra il sentimento dell'assoluto divino e del contingente umano, continuerà in lui, come forma della sua stessa esistenza e della sua arte.
L'opera del maestro. - Quanto grande era stata la fama del P. in vita, tanto la sua morte percosse di dolore il mondo dei letterati: il Boccaccio raccolse le forze, che gli venivano mancando, per farne un compianto, il quale si congiunge idealmente a quella sua Vita, che è una delle prime biografie del P. Quel Giovanni Malpaghini da Ravenna (v.), che gli aveva copiati tanti scritti latini e le Rime in gran parte, e poi gli era fuggito di casa, ritornò col cuore al vecchio maestro per fargli estremo omaggio; ed è l'unico scritto che di lui resti. Altri discepoli ideali, come Coluccio Salutati e Giovanni di Conversino ne scrivono gli Elogia, e il papa, nell'abominata curia avignonese, ordina che ne siano copiate le dotte opere. I poeti volgari uniscono le loro lire al concento ed esaltano "il buon testor degli amorosi detti". Gli amici padovani salvano dalla dispersione le opere incompiute, donde muove l'edizione dell'Africa e dei Trionfi. Il movimento umanistico, che così forte impulso aveva avuto dall'entusiasmo e dall'ingegno del maestro, continuò con ritmo accelerato e in breve superò - com'è naturale - le posizioni raggiunte da lui, e i letterati cominciarono a guardarlo un po' dall'alto. Eppure se la prosa latina di L. Bruni e di Poggio Bracciolini s'allietò d'una viva freschezza; e se il Poliziano e il Pontano e il Sannazzaro, ancora un secolo e mezzo di poi, rinnovarono al possibile i modi e le forme dell'antica Musa, e se il ciceronianismo compì nel campo della rettorica l'opera di ricostruzione ideale dell'antica civiltà latina, che nelle ricerche erudite e storiche perseguiva la filologia, tutto ciò derivò da avviamenti, esempî, presentimenti del P.
Sarà questa, anzi, la caratteristica della sua amorosa epopea: il lungo amore. Perciò ne sono così spesso noverati gli anni: "Tennemi amor anni ventuno ardendo... dieci altri anni piangendo" (n. 364). I primi componimenti (men che una trentina) sentono delle convenzioni stilnovistiche e trovatoriche (nn. 19, 21, 23, 25). Cominciamo a riconoscere la voce del suo canto elegiaco col son. Solo e pensoso (n. 35) e il suo sentimento del paesaggio con la canz. Ne la stagion (n. 50). L'occasionalità, in componimenti di risposta, d'omaggi, di politica, prevale ancora sulla pura lirica, anche se questa "occasionalità" produca l'ispirata canz. Spirto gentil (n. 53), la quale, dettata probabilmente quando a senatore di Roma fu eletto un "barone" animato da buoni propositi di governo, superò di tanto l'oscuro evento, che se ne cercò un altro più degno, e si attribuì al tribunato di Cola. Nella meditata varietà della raccolta, seguono ad essa i sospiri dell'anima esitante fra opposti inviti; e quindi il gruppo di quattro canzoni contigue (nn. 70-73), tra cui le tre "sorelle" sulla lode degli occhi di Laura: audace cimento del maestro ormai padrone dell'arte sua; "allegrezza geniale" dell'artista, che effonde la pienezza delle sue possibilità; ammiratissime nei tempi che l'ingegnosità elegante era più in pregio e meno sospetta di non esser poesia. Più oltre fa riscontro a questo un altro gruppo, nel quale il P. tocca le cime più alte della sua arte. Frammezza una serie di più tenui sonetti, ove a poco a poco Laura viene inoltrandosi, figura viva, sulla scena: un saluto, un incontro; non altro, ma è tutto. Laura, che è Dafne; e a significar ciò il P. inserisce qui una solenne allegoria (Una donna più bella, n. 119), che ripete la storia della sua giovinezza inseguente la gloria dell'arte su cui raggia l'amore ma non inconscia d'una più alta idealità: sia questa la Virtù o sia la Verità. 2ff7e9595c
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